“RAZZI DI NERO SU BIANCO”: DA QUALCHE PARTE DOVEVO PUR INIZIARE…

Una rubrica di un giornale letterario!? Cosa? Dove? Bruciatela! Aspettate un attimo: ma non erano scomparse con i dinosauri?

Ebbene sì, miei cari (sempre che ci siate) lettori, i giornali letterari, e più ampiamente “culturali”, nonostante le loro caratteristiche si stiano sempre più avvicinando a quelle dei panda (forme di vita bianche e nere, tutto sommato carine, ma  costantemente a rischio di estinzione), sono vivi e vegeti, e dopo un graduale e non facile processo di refreshing, restyling, nordic-walking e hair stylist, che sostanzialmente si è risolto nel dover accettare di scrivere anche sul world wide web (è stato un sentiero irto e tortuoso, ma ce l’abbiamo fatta), sono pronti a tornare sulla piazza per… ecco, questa è la vera domanda, per fare cosa?

Oggi oramai, connessi dappertutto e capaci in pochi secondi di arrivare dovunque, di trovare ed usufruire di qualsiasi informazione desideriamo (“liberi di non dover scegliere” dice una recente pubblicità, e a mio parere l’aberrazione di questo processo sta proprio qui, ma ne riparleremo fra qualche numero), a cosa può servire un’accozzaglia di frasi dal senso dubbio che, parlando di fatti  lontani e strambi personaggi con idee poco chiare sulla vita e sull’arte, pretende pure, dati questi presupposti, di avanzare teorie e interpretazioni sulla realtà contemporanea, sul mondo in cui viviamo oggi? Beh, sinceramente io credo che a qualcosa serva, altrimenti non sarei qui a dannarmi l’anima tra Byron e Joyce che si prendono a cazzotti sugli scaffali della mia libreria, probabilmente avrei aperto un “Centro idiosincratico per le applicazioni tecniche dell’ukulele”, ma invece sono qui. E la ragione che do alla mia penna che scorre a volte veloce e a volte pesantissima su stropicciati pezzi di carta, al mio incessante ed irrequieto battere sui tasti di questa tastiera, è che noi uomini, tutti e senza eccezione, ne abbiamo bisogno. Bisogno di cosa? Di vivere davvero, di avere la possibilità, in questo battito di ciglia che dura poco più di un secondo e che chiamiamo vita, di assaporare ogni momento come se fosse  l’ultima notte prima di un’accecante alba, come se solo in quel momento fosse possibile realizzare i nostri sogni più segreti, le nostre danze proibite sul vetro prima che esso si frantumi, facendoci precipitare nella lava, di amare e anche di soffrire, ma davvero, senza compromessi. Vedo una domanda dal fondo, qualcuno sembra voglia farmi un appunto (meno male, allora vuol dire che almeno qualcuno c’è): come? Non la sento, alzi un po’ la voce! Mi sta chiedendo cosa c’entra il giornale letterario con tutto questo? In effetti è un’ottima domanda, me la sarei dovuta aspettare. C’entra eccome, c’entra quasi più di ogni altra cosa, perché io credo fermamente che la letteratura, e l’arte in generale, sia il più grande stimolo e una delle più grandi forze che ci possa aiutare a vivere davvero, e non semplicemente ad “esistere”, a “vegetare” come  steli d’erba inerti abbandonati alle folate di vento, che poi ci sradica dal suolo senza che nessuno se ne accorga. L’arte ci permette di esplorare le infinite possibilità dell’essere, di interrogarci su noi stessi e su ciò che ci circonda, di esaltarci ed affliggerci per le sorti di qualcuno di diverso dalle nostre persone (e già questo, all’alba dell’anno 2016, è rarissimo), di scorgere nuove possibilità che prima nemmeno calcolavamo nel grande mare dell’immaginario, ma soprattutto di acuire nella nostra interiorità quelle caratteristiche umane che ci denotano per quelli che siamo: passione, ingegno, curiosità, irrequietudine, angosce e paure, desideri e speranze. Cosa c’è dunque di più importante di ciò che ci fa sentire vivi ed allo stesso tempo esseri umani, fragili ed invincibili nella nostra piccola e grande individualità? Io dico nulla, dato che, nella mia personale opinione, anche l’amore è una forma di poesia, di quella autentica che, nelle parole di John Keats, uno dei più grandi poeti del Romanticismo inglese, e forse in assoluto, “se non viene naturalmente come le foglie vengono ad un albero, è meglio che non venga per niente”.

Dunque è per questo che ho deciso, pur considerandomi in primo luogo un presunto poeta e scrittore (ed infatti in questa mia rubrica cercherò molto spesso di introdurre lavori e composizioni mie e di altri, perché un giornale che parla di arte ma in cui l’arte non si vede, per il mio modo di vedere non ha senso di esistere), di impegnarmi in questo viaggio, insieme ad alti tre valentissimi pazzi come me, a parlare di arte in tutte le sfaccettature possibili, sperando di suscitare il vostro interesse e cercando di proporre temi sempre nuovi, o perlomeno di affrontare temi classici da nuovi punti di vista (cercherò, o meglio cercheremo, perché credo che questo sia un indirizzo condiviso da tutta la redazione, di evitare il duemilaquattrocentosettantasettesimo articolo che svisceri il problema della scarsa acculturazione di grande parte dei giovani in Italia, oppure quello sull’involgarimento del gusto, non ce la si fa più): disquisirò dunque di estetica e dei Led Zeppelin, di cinema e romanticismo, del fatto che probabilmente Baudelaire e Jim Morrison si sarebbero volentieri fumati qualcosa insieme, di cosa sia l’arte contemporanea e del perché a cena va sempre di traverso a tutti, se non la si sa digerire appropriatamente. Insomma, c’è davvero tanto di cui parlare, e se già con questa strampalata dichiarazione d’intenti ho strappato a qualcuno un briciolo d’interesse, mi ritengo soddisfatto e fortunato.

Vorrei chiudere, prima di fissare il prossimo appuntamento il prima possibile, e cioè al mio primo articolo propriamente detto su questo giornale, con una citazione tratta da un film famosissimo, e forse famosa essa stessa; di solito non amo farle, specialmente quando potrebbe sembrare che il mio intento sia quello di ingraziarmi i miei lettori. Ma vi posso assicurare che non è così, e che l’unico motivo per cui l’ho scelta, oltre ovviamente alla pertinenza con il tema trattato, è che la seconda volta che ho visto quel film ed ho sentito questa frase, molto più consapevole del suo grandioso significato, l’ho assorbita dentro di me, e da quel momento non se n’è più andata. La cito direttamente in inglese, rende decisamente meglio:

“Medicine, law, business, engineering: these are noble pursuits and necessary to sustain life. But poetry, beauty, romance, love… these are what we stay alive for.” -prof. John Keating (Robin Williams), tratto da “L’Attimo fuggente”-

Siamo ancora tutti in piedi sui banchi, Capitano nostro capitano. Grazie di tutto.

 

Simone Rizzi (Avanguardia Distrattista)

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