“Gamberetti in salsa rosa” (e Polemica sull’altezza degli uomini con cappello in forma di storia breve)

Premessa dell’autrice:
Anna (Ittez), Alessandro e Simone paiono entusiasti di aver incominciato questo blog pseudo-culinario in cui si fanno saltare in padella le idee. Anche a me, Silvia, fa molto piacere lavorare con loro, ma vi dirò la verità: il mio obiettivo principale è di farvi riflettere sulla triste sorte dei gamberetti che vengono avanzati durante i pranzi di Natale, a tutta quella salsa rosa che, circondando esserini rosa, ormai privi di vita, assiste alla lenta degenerazione della loro materia, nel caso in cui non vengano consumati nei giorni appena successivi. Pensateci, e rendetevi conto del fatto che ogni gamberetto scartato è un gamberetto morto invano. Buona lettura, oggi si scrive di cappelli e signorine sull’autobus.

Un uomo che indossi un cappello non diventa più alto, pensava tra sè e sè una persona a caso, di quelle che potresti incontrare sul bus per casa ogni giorno. Ed è proprio in quel giorno che l’hai incontrata di sfuggita, la persona, tra un caffè preso con un’amica e una commissione fatta per un collega dell’università, appesa su un autosnodato all’esterno di colore verde, dentro grigio catrame, mediamente pieno, in cui non c’era posto per sedersi. “Un uomo che indossi un cappello rimane sempre della stessa altezza, nonostante la nostra percezione ci suggerisca che il cappello faccia parte della sua figura, che è, in quel momento, intera in sè, inscindibile in altre parti. Certo, se fosse un uomo basso a portare il cappello, forse non avremmo la stessa impressione… Il lungo cappello potrebbe diventare ossimorico rispetto al minuto omuncolo, e farci notare ancor più il paradosso”, questo pensava, avendo appena visto di sfuggita un signore molto alto, ed avendo pensato: “Questa non è affatto un’altezza normale” nella sua testa, e se l’era immaginato con una lunga tuba nera a copertura della pelata, delegando la sua statura inconsueta all’artificio creato dalla tuba.
Eri presa dai tuoi pensieri, proprio assorta, e non te n’eri accorta affatto; rimuginavi ancora sulla conversazione con quell’amica, tanto cara, che avevi appena incontrato nel bar caldo e umido a cui siete abituate. Quando i suoi capelli lunghi e mossi ondeggiavano davanti a te, a volte sfiorandoti, ti dava quasi quel senso di fastidio che si prova quando una ragnatela si appiccica al cappotto, e non si riesce a staccare senza lasciarne delle tracce invisibili. Ecco, i suoi capelli onnipresenti lasciavano un che di irrisolto sulla tua pelle nuda delle mani e del collo, quando vi si impigliavano, che so, al termine di un abbraccio.
Allora lei, imbarazzata e vigile, scusava con lo sguardo quella sua particolare scelta religiosa, quel mantenere tanto lunga la propria chioma, e tu proprio non riuscivi a non perdonarla, nonostante quell’uso fosse lontanissimo dal tuo, che ti imponeva un taglio corto. Eppure, ogni volta, finivi per desiderare dei capelli come i suoi, morbidi e fluenti, al posto della tua zazzera eternamente spettinata, che aveva come unico elemento d’ordine la presenza della netta frangetta, ricavata da un paio di forbici per unghie, a ridosso d’un lavandino implorante pietà (che non gli concedevi).
Ed eri quindi lì, giovanissima, più dei ragazzi senegalesi che vendevano elefanti e fazzoletti fuori dalla sede di Festa del Perdono, su un autobus, senza biglietto (avevi dimenticato l’abbonamento a casa, e che è? Dovevi pure pagare il biglietto per un autobus quasi pieno alle cinque e trenta di sera? Mai!), e non ti rendevi conto che quel signore in piedi accanto a te non aveva buone intenzioni, mentre ti si avvicinava e, con cautela, afferrava lievemente l’interno della tua coscia. Tu pensavi alla tua amica, ma poi, zac, qualcosa si era incrinato, ah, lo spazio personale veniva minacciato, anzi, aggredito! E allora non sai cosa fare, qualcuno ha visto? Nessuno ha visto, cosa faccio, come mi muovo, non posso colpirlo. Cosa faccio.
Così, di scatto, ti sei girata verso di lui, l’espressione di un bovino incazzato nero, e l’hai fissato, sfidato, aspettando che reagisse in qualunque modo: volevi così ardentemente ammazzarlo, cercavi la scintilla che ti desse ragione di non dubitare di quello che era appena successo.
Che non arrivò: il signore ti guardò interrogativo, scuotendo il capo. Lo fissasti ancora, si spostò, accasciandosi ad un sostegno. Fu allora che sentisti la vera violazione, l’appiccicoso inestirpabile, lì, tra le tue gambe, lunghe gambe che in quel momento desideravi non avere. E non si era nemmeno scusato con gli occhi, come faceva sempre la tua amica, per quel fastidio che non aveva saputo fare a meno di provocarti. Questo ti causava la sofferenza maggiore.
Un uomo basso, con un cappello, sembrerebbe ancora più basso, pensava tronfio, come si trattasse di una scoperta che avesse fatto lui solo, ah, proprio come quel tipo appoggiato lì, che strana posizione per starsene sull’autobus. Chissà che cosa guarda? Ehi, ma… Che fa quella ragazza? Piange?

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